Laboratori e percorsi di formazione

Il laboratorio teatrale

La scuola, veicolo privilegiato di educazione e formazione, non può trascurare l’educazione alle arti, considerando lo strumento artistico un mezzo prezioso che mira a sviluppare la capacità di espressione del sè. Educazione alla teatralità significa educazione al bello, educazione al fare, educazione al pensiero, attraverso la cultura teatrale, troppo spesso così poco conosciuta.

L’obiettivo dell’attività è creare un’occasione di crescita attraverso le tecniche teatrali.

L’esplorazione dei linguaggi espressivi, strettamente legata all’attività teatrale, diventa veicolo educativo privilegiato e occasione di crescita e formazione del sè, all’interno di un percorso di gruppo.

Uno strumento di sicura efficacia come stimolo all’espressione della creatività personale, alla scoperta di sé ed all’interazione cooperativa con gli altri è costituito dall’esperienza teatrale, vista nella dimensione del laboratorio e pensata in relazione alle reali esigenze dei ragazzi e delle ragazze, dei bambini e delle bambine, ai loro interessi ed alle loro capacità. Tale laboratorio è organizzato secondo un progetto che tiene in considerazione, pur non essendone fortemente condizionato, i contenuti dei programmi scolastici che i ragazzi stanno affrontando, allo scopo di mantenere una certa interdisciplinarità, la quale favorisce nell’allievo una significativa abitudine alla continuità delle esperienze affrontate.

Laboratorio non significa tanto un luogo, quanto un lavoro, dal momento che costituisce un’occasione per imparare facendo, con la convinzione che l’aspetto più importante consiste nei cambiamenti che il processo mette in moto e non nel punto di arrivo.

Gli obiettivi riguardano la scoperta e sviluppo delle potenzialità creative e della socializzazione; la valorizzazione della fantasia e dell’espressività mimica; la presa di coscienza di sé e dell’espressività attraverso il gesto, la voce, i colori, il suono, il racconto, il movimento.

  • I contenuti riguardano le aree del linguaggio
  • Il movimento creativo, ovvero l’area dedicata al linguaggio non verbale e multimodale;
  • Lettura espressiva, ovvero l’area dedicata al linguaggio verbale;
  • Area dedicata alla scrittura creativa; 
  • Elementi di storia del teatro

Il percorso, a partire dagli 8 anni, sarà diversificato nei contenuti e nelle modalità a seconda della fascia di età dei partecipanti.

Storie senza stereotipi

Per bambini e bambine della scuola primaria

Il progetto consiste in drammatizzazioni e letture animate di storie liberamente tratte da libri per l’infanzia sensibili alla parità di genere.

Il teatro, nella messa in scena costruisce uno spazio di finzione condivisa, dove la posizione protetta dello spettatore consente una facile relazione con -in questo caso- personaggi che rappresentano degli antistereotipi sociali. Se il teatro è “ciò che accade tra l’attore e lo spettatore”[1], allora, l’uso del linguaggio teatrale risulta essere un veicolo efficace per fare educazione al genere, come, fin dai tempi antichi è l’uso dell’arte nei processi formativi[2].

La scelta del linguaggio teatrale scaturisce dalla mia formazione dalla volontà di usare l’arte come veicolo: veicolo per l’educazione e l’emancipazione delle persone. Per natura il teatro non nasce per l’esistente, ma per le possibilità dell’esistere, concetto caro anche a una pratica di educazione al genere. Il teatro è esperienza di una relazione e questo può generare significati condivisi; in questo senso può agire sulla cultura, sui modi di pensare, sul senso comune. Lo spettatore/attore è testimone di un mondo “altro”.

L’esperienza si fa conoscenza, dunque fonte di cambiamento: il cuore dell’educazione al genere. L’importanza del corpo nell’azione teatrale inoltre, lo sottrae a modelli di bellezza omologanti.

L’esposizione abituale o frequente a forme di arte teatrale inoltre sensibilizza i piccoli e le piccole alla narrazione e all’estetica teatrale, stimolando le capacità espressive.

I temi che si vogliono affrontare sono l’identità, -intesa come capacità di riconoscersi in preferenze, gusti, talenti, caratteristiche di personalità, la giustizia sociale in un’ottica di parità e l’immaginazione futura del sè -attraverso l’uso del genere femminile nelle professioni-.

La drammaturgia della messa in scena si ispira al libro l trattore della nonna[3] della collana Sottosopra.

La magia del teatro consente ai bambini e alle bambine di incontrare personaggi vicini alla loro realtà, ma non stereotipati. Ed ecco dunque che gli alunni e le alunne della scuola primaria parleranno con una nonna che non vede l’ora di andare sul suo trattore a cogliere i frutti nel campo e con un nonno premuroso e indaffarato che ama occuparsi della casa facendo i lavori domestici e che prepara succulente torte per la sua compagna in arrivo dal lavoro dei campi. Nella letteratura per l’infanzia le sottorappresentazioni sono molteplici[4], e non riguardano solo le tematiche di genere e le presenze maschi/femmine ma anche gli anziani, come i disabili, i migranti o la pluralità dei modelli familiari.  Gli anziani sono spesso rappresentati con figli e nipoti e non come persone che coltivano le loro passioni. Nel racconto nessun altro personaggio appare oltre ai due vecchietti, segno forse che si può essere una famiglia anche in due.

Si propongono quattro storie una delle quali può variare in relazione alla fascia di età dei bambini e delle bambine.  Le storie presentate sono: Il trattore della nonna, Federica e Federico, Cosa faremo da grandi?, La vera storia dei bonobo con gli occhiali oppure Principessa di papà[5]. Ogni racconto èseguito da un laboratorio di costruzione con la carta.


[1] Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, 1968

[2] G.Oliva, La pedagogia teatrale, Ed Unicopoli, 2005

[3] Liberamente ispirato a Il trattore della nonna, Dominiconi, Roveda, EDT Giralangolo, collana Sottosopra, 2014

[4] Leggere senza stereotipi, Scosse, ed Settenove, 2015

[5] La principessa di papà, Vidal, le Mail,ed Sinnos, 2017, Il trattore della nonna, Roveda, Domeniconi, ed Sottosopra, 2014, Federica e Federico, I. Biemmi, Giunti Kids, 2016, La vera storia dei Bonobo con gli occhiali, Turin, Motta Junior (solo per classi quarte e quinte), 1976, Cosa faremo da grandi? I.Biemmi, Terranera, Settenove, 2018


Il potere sovversivo delle storie

«C’è qualcosa, nella tendenza maniacale a fissare obiettivi e metodi, a progettare, monitorare, documentare: un errore epistemologico che si paga con un male oscuro della nostra civiltà, con la disarmonia” (Formenti, 2017)

Oggi più di ieri, gli e le insegnanti sanno bene cosa significa documentare, programmare, progettare. Sanno anche cosa significa formazione permanente, lifelong learning. Parliamo di una scuola in grado di stimolare il pensiero critico in allievi e in allieve. Consapevoli del ruolo decisivo dell’insegnante nella vita scolastica che occupa molte delle ore giornaliere dei nostri figli e figlie, investiamo dunque nella formazione.

Ma di quale tipo di formazione abbiamo bisogno? Forse di qualcosa che non ha nulla a che vedere con l’incremento di abilità tecniche e procedurali, con l’apprendimento di nuovi software, con proposte che ci tengono pronti ad affrontare le nuove sfide del mercato. Laura Formenti (2017) evidenzia il rischio di marketing esperienziale: quanto c’è di consumistico anche nella formazione? Cosa può significare questa osservazione, nel mondo della scuola?

Chiamata a partecipare ad alcuni corsi di formazione, mi sono spesso scontrata in forme egemoniche di apprendimento. Una delle sensazioni nette che avevo era che il formatore o la formatrice parlasse di attività che alcune mie colleghe/i facevano da anni. Avrei allora voluto dare voce a loro, avrei voluto che fossero loro a raccontare pubblicamente la loro esperienza, avrei voluto l’esercizio del “pensare insieme”: per farlo occorre “dare voce ai saperi invisibili” dove chi parla rinuncia al suo potere simbolico di formatore come depositario di una conoscenza già data.

Se formazione è cambiare la nostra comprensione delle cose, allora non c’è formazione se non si riconosce l’esperienza come fonte di conoscenza. Questa è una responsabilità collettiva, poiché spesso, di fronte allo stesso sapere egemonico, le risposte sono accoglienti se non reverenziali: è forse anche questa una pratica che possiamo mettere in discussione, poiché reduce da una antica forma di trasmissione del sapere nella quale probabilmente, siamo cresciuti e cresciute. Addestrati/e a non mettere in discussione “l’esperto/a”, tendiamo facilmente a non dubitare delle parole delle/dei professionisti, ma anche delle parole scritte nei libri di testo: non siamo forse sufficientemente allenati/e a decostruire alcune letture della realtà. Se da una parte l’universo della formazione dovrebbe farsi delle domande, dall’altra non possiamo semplicemente aspettare che questo accada.

Le immagini delle/degli insegnanti come professionisti stanchi, precari e per questo scontenti, malpagati e lassisti è uno stereotipo utile al mantenimento di un sistema che, invece che affidarsi al pensiero critico individuale, si affida agli “specialisti/e”: anch’essi/e pedine (non sempre privilegiate) di un sistema che affida il potere di parola a qualcuno/a e non a qualcun altro/a che, a sua volta, non si riconoscerà legittimato/a a parlare. La credibilità delle/degli esperti deve essere messa in discussione, non in chiave denigratoria o competitiva, ma con l’intento di tendere a una co-costruzione del sapere, poiché il sapere non è tale se non si ha la consapevolezza della sua parzialità. Per riconoscere una buona formazione è necessario tenere conto di più polarità semantiche, di moltiplicare gli sguardi, di dare valore all’esperienza come fonte di conoscenza, poiché solo aumentando le narrazioni possiamo costruire nuovi significati e generare così una trasformazione nelle azioni.

La specializzazione delle professioni a scapito di un sapere olistico non aiuta questo processo. Per diversi anni il termine “pedagogia” è addirittura scomparso dagli indirizzi universitari, si parlava di “scienze dell’educazione”. Le parole hanno un significato e innescano rappresentazioni: nessun cambiamento nel linguaggio può considerarsi ininfluente. Riprendiamoci allora la pedagogia come un antico esempio di sapere olistico e lasciamoci guidare per riconoscere una buona formazione. Una buona formazione ha sempre a che fare con l’immaginazione, non solo con l’utilità immediata. Il potere di immaginare è trasformativo per natura. Tra ciò che ci aiuta a immaginare, occupano un posto privilegiato le storie. Le storie ci aiutano a trasformare le nostre esperienze in conoscenze, un formatore o una formatrice che sa parlare di sé, che utilizza la propria esperienza, ancor meglio le proprie fatiche e i propri fallimenti, sta in fondo narrando una storia collettiva: autorizza, stimola chi si trova di fronte, a fare altrettanto. Le nostre storie sono la nostra vita, sono la nostra identità.

È la ricerca femminista ad aver elevato il racconto di sé a strumento per l’emancipazione e per una trasformazione autentica. Strumento per svelare strutture centenarie di potere, strumento per costruire nuove tradizioni, per creare, nel presente un’eredità preziosa. Betty Collura, presidente dell’associazione A.LI.D.A. (Associazione Libere donne attive di Pioltello) ha organizzato il 28 novembre un incontro con la sociologa Mara Ghidorzi, co-ideatrice del progetto imPARIaSCUOLA, l’associazione teatrale ZeroCommaZeroUno e Wally Franceschin, ex assessora del comune di Carugate che fa parte del direttivo. ImPARIaSCUOLA è un progetto promosso dalle Consigliere provinciali di parità di Milano e AFOL Metropolitana; nato nel 2010, si occupa di sensibilizzare docenti e genitori alla parità di genere attraverso interventi di formazione a loro rivolta e un tutoraggio agli insegnanti per la realizzazione di attività con alunni e alunne delle classi coinvolte. Il connubio (pedagogia di genere, teatro e politica) è quanto di più sacro e antico possiamo ricordare in ogni processo di apprendimento. La pedagogia di genere, per sua natura, si serve dell’esperienza e il patriarcato è un vissuto che coinvolge tutti e tutte.

Prima degli studi sul linguaggio, prima delle ricerche sui libri di testo, prima delle buone pratiche di educazione di genere, ci sono le nostre vite, le nostre storie, di insegnanti e di adulti e adulte, ci sono segregazioni occupazionali, un welfare sulle spalle delle donne, un gap salariale che ci rende più povere rispetto agli uomini, ma anche dei vissuti maschili, se vogliamo vederli, tutt’altro che semplici. E allora, imPARIaSCUOLA sa che le informazioni non servono a nulla se non ne riconosciamo il bisogno. Partono da questo gli importanti incontri condotti nelle scuole. Poi viene proposto uno spettacolo. Perché il teatro? Perché c’è un modo di vivere la formazione che è legato ai sensi, cioè estetico. È questa la differenza tra le forme egemoniche di apprendimento e l’apprendimento trasformativo. Le storie sono vita, sono corpo: qui il teatro è il momento dell’incontro.

Lo spettacolo portato in scena è Nei panni di Zaff: Zaff è un bambino che voleva vestirsi da principessa. Come tutti noi, quando trova la forza di esprimersi (affrontando stereotipi e pregiudizi) viene finalmente visto, valorizzato, apprezzato. È qui che i bambini battono le mani, fanno il tifo per Zaff: i bambini e le bambine si schierano dalla parte di chi vuole esprimere i suoi talenti, di chi sfida il senso comune per autorealizzarsi. È un’esperienza di vita. Uno strumento formativo e trasformativo per eccellenza, lontano dal mercato della formazione, vicino a pratiche di decostruzione dell’ovvio: è questo ciò di cui abbiamo bisogno: di rivedere le nostre cornici di senso.

La stessa compagnia, proprio nel 2020, a Cinisello ha messo in scena anche “le storie di Muffin e Polpetta”: Daniele Pennati ed Eleonora Leporini, in arte Muffin e Polpetta, hanno portato in Italia il Drag Queen Story Hour, per prevenire stereotipi di genere e bullismo. Il progetto è nato grazie a all’associazione LGBTQ di Cinisello, GayMinOut.  Muffin ha la barba, i bigodini una capigliatura che luccica; il suo passatempo preferito è raccontare storie ai bambini con il suo aiutante Polpetta, uno chef goffo e pasticcione. «Muffin», spiega l’attore che l’ha ideato, «è una drag queen atipica: ha la barba. E si veste spesso di rosa. Si mescolano così, in un’unica figura, caratteristiche che comunemente identifichiamo con maschili e femminili. Non vogliamo solo stupire e intrattenere, ma educare i bambini a entrare in contatto con qualcosa di diverso in modo leggero, spiritoso e divertente. Lo stesso procedimento ha ispirato il personaggio di Polpetta, interpretato da una ragazza che veste abiti maschili e che di professione fa il cuoco, un mestiere che spesso viene pensato come prettamente maschile».

L’idea della specializzazione nel mercato delle professioni ha condizionato la mia formazione professionale, portandomi talvolta nel credere a chi affermava che «chi non si specializza resta un dilettante». Oggi so che bisogna diffidare di giudizi simili e restituire dignità al sapere olistico. In questa chiave, teatro e pedagogia ritrovano la loro antica armonia e diventano complementari ma anche necessari se vogliamo creare una formazione che sia generativa.

Concludo con le parole di Paulo Freire «Se siamo capaci di modificare il mondo che non abbiamo creato (con un pozzo, trovando l’acqua, per esempio), perché allora non potremmo essere capaci di rifare il mondo della cultura, della politica e della storia?» Iniziamo con una pratica sovversiva: raccontiamo storie. Raccontiamo le nostre di storie e poi lasciamoci guidare dall’arte come veicolo: per l’emancipazione e la formazione delle persone. Nulla di nuovo in fondo. Nulla di più strettamente legato alla tradizione: una tradizione che ha bisogno di una nuova eredità.

Bibliografia
Formenti L., Formazione e trasformazione, Cortina, 2017
Illich I., Disoccupazione creativa, Boroli, 2005

Storie senza stereo(tipi): il progetto teatrale per le scuole

Sul quotidiano Il Saronno potrete leggere del progetto dedicato alle scuole e realizzato in collaborazione con Damiana Solinas, insegnante e musicista nella scuola primaria “Damiano Chiesa” di Saronno.

Buona lettura!